TeleTrade: I giganti del web e il fisco italiano
Mentre la quasi totalità degli esercizi commerciali tradizionali erano chiusi a causa delle restrizioni imposte dai vari periodi di lockdown dovuti alla pandemia, i giganti del web e le software house, aziende multinazionali conosciute anche con il sinonimo “websoft”, hanno continuato a prosperare, favorite soprattutto dal boom delle vendite sul web e registrando fatturati che hanno raggiunto negli ultimi due anni picchi del 300% con incassi pari a 850 miliardi di euro a livello globale.
In particolare, nel settore delle “Big Tech” (websoft), la fetta più grande di ricavi è riconducibile a due grandi multinazionali: Google e Amazon. Per quanto riguarda la prima, solo nella prima metà del 2020 la società di Mountain View ha fatturato 146,3 miliardi di euro, ovvero il 33,5% in più rispetto ai 109,60 miliardi di euro del corrispondente periodo del 2019; Amazon, invece è riuscita anch’essa ad aumentare il fatturato nel 2020, risultato pari a 70,7 miliardi di euro, rispetto ai 67 miliardi di euro dell’anno precedente. Anche sul territorio italiano le sedi controllate dalle due multinazionali hanno registrato negli ultimi due anni un fatturato pari a 2,4 miliardi di euro.
Nonostante i fatturati in aumento anno dopo anno, sia Amazon che Google, usufruendo di alcuni artifizi e cavilli burocratici, versano al fisco un importo inferiore a quanto dovrebbero pagare. In particolare in Italia, secondo l’ultimo rapporto di Mediobanca, hanno versato all’erario 64 milioni di euro, poco più dei 59 milioni di euro pagati nel 2017, pari a circa il 2,7% dei loro ricavi, un importo esiguo se confrontato con il loro giro di affari di oltre mille miliardi di euro l’anno. La possibilità da parte delle due multinazionali di non versare le imposte in Italia è dovuta a diversi fattori.
Prima di tutto, le aziende websoft hanno la capacità di districarsi tra i paesi a fiscalità agevolata spostando i fatturati delle controllate presenti sul territorio italiano in altri paesi dove le aliquote fiscali sono più basse. Inoltre, spesso utilizzano la pratica del “cash pooling”, spostando parte della liquidità delle filiali italiane presso altre controllate presenti in altri paesi dove la fiscalità è più agevolata, commenta l’analista finanziario di TeleTrade Giancarlo Della Pietà.
In aggiunta a quanto indicato sopra, in Italia non esiste una tassazione creata ad hoc sui fatturati riguardate i giganti del web. L’unica tassa introdotta con la legge di Bilancio del 2019 è stata la web tax, ma i decreti attuativi necessari per la sua entrata in vigore non furono mai emanati. Nella Legge di Bilancio 2020 viene nuovamente introdotta, questa volta senza la necessità di decreti attuativi, entrando di fatto in vigore. L’aliquota è pari al 3%, ma l’ultimo comma della Legge di Bilancio in realtà passa la palla agli organismi sovranazionali, perché si legge che nel caso in cui subentrino accordi internazionali per disciplinare le imposizioni fiscali ai colossi di internet, la web tax italiana si intende abrogata.
Inoltre, nonostante i giganti del web continuano imperterriti nella pratica di non pagare le tasse in Italia, o quanto meno in minima parte rispetto ai loro fatturati, c’è chi come Amazon si difende, sostenendo di pagare quanto dovuto. L’azienda a più riprese ha puntualizzato di versare quanto dovuto nelle casse dell’Erario italiano, sostenendo che i profitti vengono spesso spesi per gli investimenti che stanno sostenendo sul territorio e che a breve effettueranno nuove assunzioni per coprire oltre 1000 posti di lavoro. In sostanza, Amazon afferma che l’importo delle tasse pagate è persino più alto del dovuto, con un’aliquota dichiarata del 24%.
L’irrisolto problema della giusta tassazione dei colossi come Amazon e Google non è solo una questione italiana, ma va a interessare diversi tribunali francesi, tedeschi e inglesi che hanno tentato negli ultimi anni di imporre il rimborso degli arretrati, ottenendo solo successi parziali o provvisori. Oggi, anche l’OCSE, l’organizzazione dei paesi in via di sviluppo, sta cercando di trovare una soluzione sovranazionale in grado di affrontare il problema, trovando un metodo per convincere le big tech a pagare almeno una parte delle imposte nei paesi dove vengono generati fatturati e utili, eliminando le complesse triangolazioni che spostano la base imponibile nei paradisi a fiscalità ridotta. Nella situazione attuale, la partita è tutt’altro che semplice e si naviga ancora a vista in acque procellose, seppure sia il presidente francese Macron, che la cancelliera tedesca Angela Merkel, stanno spingendo per varare già da quest’anno una tassa digitale made in Europe.
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